Uno dei punti più controversi quando si erogano sessioni di coaching alle persone che lavorano in azienda, è il tema della riservatezza.
La richiesta che arriva al coach è in genere quella di supportare la persona nella definizione e nel perseguimento degli obiettivi che, nel mondo ideale, vedono perfettamente allineati azienda e dipendente.
Sulla carta, si parla esclusivamente di tematiche lavorative, e questo pone un primo problema: è ovvio che il committente si aspetti di essere in qualche modo tenuto al corrente dell’andamento delle sessioni per poterne valutare l’efficacia. Da qui la complessità della relazione coachee /coach/committente, che anche quando non ha come collante la fiducia – specie tra dipendente e azienda – può trovare un fondamento nel comune interesse a raggiungere gli obiettivi aziendali e nel salvaguardare la posizione del collaboratore.
Partiamo dal perché
Se viene a mancare questo presupposto, infatti, il ciclo di coaching che formalmente viene proposto dall’azienda al dipendente come corporate coaching si trasforma rapidamente in altro.
Un esempio che si presenta con una certa frequenza riguarda le persone in posizioni di responsabilità che manifestano una diminuzione delle proprie performance, ad esempio nel settore delle vendite, dove il calo è immediatamente rilevabile.
Durante la prima sessione di coaching è sempre necessario comprendere se il coachee ha consapevolezza delle cause di queste difficoltà. A volte, possono essere di natura strettamente lavorativa: un disaccordo sulle strategie aziendali o criticità nella relazione con colleghi e superiori. In questi casi il percorso di coaching procede secondo i canoni “classici” del business coaching, che integra elementi psicologici ed elementi organizzativi, col fine ultimo di conservare e migliorare la relazione professionale.
Spesso, tuttavia, l’origine del problema risiede in fattori esterni che incidono sulla capacità individuale di provare curiosità ed entusiasmo per le sfide: problemi familiari di varia natura, ragioni di salute, o la sensazione di essere “fuori posto” perché si vorrebbe fare un altro lavoro.
Dal punto di vista etico, come dovrebbe comportarsi il coach se il coachee “confessa”, in maniera più o meno consapevole, che la disaffezione per il proprio lavoro non è sanabile internamente all’azienda in quanto non dipende da problemi organizzativi?
Puoi fidarti di me
Le domande che ho posto in questo articolo sono in realtà retoriche.
Il coach non ha scelta: deve mantenere la riservatezza su quello che viene detto in sessione, e aiutare il coachee a uscire dai momenti di confusione con le risposte giuste per sé, anche se non sono quelle attese dall’azienda.
Indipendentemente da chi sostiene il costo del percorso, infatti, la relazione tra coach e coachee è personale e fondata sulla fiducia. Il coach può trasmettere all’azienda suggerimenti di tipo organizzativo o consigliare ulteriori interventi di tipo formativo, ma non opinioni che riguardano la sfera privata del dipendente.
La conoscenza degli strumenti di coaching si sta diffondendo sempre di più nelle aziende, e questo è senz’altro un bene: spesso negli uffici Risorse Umane sono presenti persone con competenze assolutamente idonee. Il tema della riservatezza nella relazione che si crea tra coach e coachee è tuttavia fondamentale nella scelta tra coach interno ed esterno. Un coach che sia anche collega del dipendente incontra spesso una maggiore difficoltà nel costruire la relazione di fiducia, ed è un tema di non secondaria importanza quando si valuta l’efficacia attesa di un percorso di coaching.
Il rischio è di spendere poco ma di ottenere ancora meno.